Martino – costruzione di un personaggio

Martino aveva già cinquant’anni quando ne aveva compiuti dodici. Portava un pullover a quadrettoni gialli e pantaloni verdi di velluto a coste.
Martino dopo la scuola, non andava al campetto dell’oratorio. Preferiva il cantiere della nuova tramvia, proprio accanto alla sede del dopolavoro ferroviario, dove a volte lo invitavano a giocare a briscola. La mamma, come tutte le mamme, capiva ogni cosa di Martino, tranne quel suo pensionamento così precoce.

L’ultimo mostro

Poche erano le storie che il nonno mi aveva tenute nascoste e il motivo era sempre e solo uno: la vergogna. Non era un uomo da tenere segreti, tutto quello che potevi conoscere da lui lo aveva scritto in faccia. Tuttavia, nel corso degli anni, lui stesso mi disse di avere accudito quattro “mostri”, così li chiamava. Di tre ero venuto a conoscenza: una prostituta, uno schiaffo a suo padre, e l’aver gioito della morte del medesimo. Non avrebbe molta importanza adesso raccontarvi i particolari di questi eventi, di cui la vergogna provata e accudita è evidente. Ma per l’ultimo “mostro”, di cui venni a conoscenza solo prima che morisse, non riesco ancora a capire il nesso con il sentimento che provava.

Dormiva ancora quando arrivai e non volevo svegliarlo. Sapevo che di lì a breve sarebbe arrivato il servizio del cambio lenzuola e non avrei avuto altra scelta. La faccia ruvida, color rame come la carta vetrata, veniva colpita dalla luce fredda della stanza. Dormiva a pancia in su, con le braccia distese lungo i fianchi e il respiro lento. Praticamente un morto. Quell’idea mi convinse a svegliarlo.
«Perché mi fissi? Non cominciare a rompermi i coglioni di prima mattina!»
Disse prima ancora che gli mettessi sotto al naso la colazione del bar. Non risposi e aspettai che aprisse il sacchetto. Tra il cornetto e il caffè c’era il regalo giornaliero, una sigaretta. Il suo volto si illuminò quasi quanto il neon della stanza. Prima ancora di bere il caffè, scese dal letto avvicinandosi alla finestra per fumare.
«Nonno ho trovato la scatola che cercavi».
Con la sigaretta già a metà mi fece cenno di avvicinarmi. Prese la scatola tra le mani e cominciò a togliere tutto il nastro adesivo che la sigillava. Sembrava la cassaforte improvvisata di qualche bambino, che non aveva trovato altro modo per tenere lontano dal resto del mondo il contenuto della scatola.
«Vuoi una mano?»
«No!» disse secco. La faccia era dura come il guscio di una noce e gli s’induriva sempre più per lo sforzo di tenere la sigaretta in equilibrio tra le labbra. Riuscì a togliere il coperchio con fatica ma con soddisfazione. La tensione si era sciolta e le rughe si erano distese per fare passare alcune lacrime. Il contenuto era indecifrabile a prima vista: tanti fogli, una piccola scatola di caramelle, un cd, due pupazzi di plastica. Presi dalle sue labbra umide il mozzicone spento prima che lo ingoiasse. Tra tutti gli oggetti c’era anche una foto. Ritraeva mio nonno insieme ad una ragazza. Avranno avuto vent’anni. Erano abbracciati in primo piano, e si guardavano ad occhi chiusi distesi su un prato.
Si avvicinò al letto reggendosi al mio braccio e riprese subito il suo aspro contegno, come se si vergognasse di ciò che aveva appena provato. Rimasi in silenzio senza chiedere troppe spiegazioni mentre lo aiutavo a coricarsi.
«Sai cosa devi fare per vedermi morire contento?»
«No nonno, non lo so.»
«Devi distruggere questa scatola»
«Ma perché? Sembra così piena di ricordi. È la tua vita!»
«Devi capire che se il contenuto di quella scatola si fosse avverato, tu non saresti qui oggi, seduto sul mio letto a rompere i coglioni. Preferisci prendere il posto della scatola? L’uno non ammette l’esistenza dell’altro. Fate voi! A me non interessa chi deve restare, basta che non mi rompiate più i coglioni.»
«Va bene nonno, la butterò via.»

Chiuse gli occhi e si rimise a dormire a pancia in su con le braccia distese lungo i fianchi. Gli rimboccai le coperte fino al collo, notando con sollievo un volto gentile. Quando feci per andarmene rimasi ancora dubbioso della sua vergogna per quella scatola. Non ero certo del sentimento che lo aveva attraversato, ma la sua solita amarezza era stata spazzata via da un “mostro” la cui esistenza era destinata a morire con lui.

Ti dirò

Ti dirò ti amo un altro giorno
Per non perdere questa occasione
Ti dirò ti amo domani
Affinché il presente non possa fare morire queste parole
Ti dirò ti amo per poter accorciare la distanza
Tra la lingua e il cuore
Ti dirò ti amo nel letto
Così sarà morbido sentirmi
Ti dirò ti amo con la bocca chiusa
Come le cose dette in preghiera
Ti dirò ti amo soffocato tra i capelli
E quando saranno bianchi
saranno più facili da pettinare
Ti dirò ti amo con le pietre nelle scarpe
Per non far volare via le mie parole

L’ultimo albero in fondo alla strada
Mette le foglie a primavera
Strette e fiorite
E quando l’ombra le fa riposare
Vado a dormire tra i loro rami
Allora ti dirò ti amo

(S)comandamenti

1
Ti consiglio di non usare l’imperativo, né per parlare né per pensare, con nessuno, nemmeno con te stessa. Piuttosto ammutolisci anziché sentire il verbo diventare sentenza.

2
Prova ad annoiarti nel tempo più piccolo che trovi, annoiati da sola, in compagnia, mentre mangi o fai l’amore. Prova a trovare lo spazio della tua noia.

3
Cerca di essere povera, senza oro né commercio, povera di parole, di vestiti, di sole.

4
Prova  a non dormire, a non chiudere gli occhi per ore, giorni, mesi, piangi se vuoi ma prova a non lasciarti al sonno.

5
Se puoi torna indietro, regredisci, almeno ritorna all’ultimo angolo di strada che hai appena svoltato.

6
Senza far danno, rompi tutti gli specchi che conosci

7
Se ne senti il bisogno lasciati morire, non opporre resistenza.

8
Impara a non contare più, a non essere schiava dei numeri e degli elenchi.

Vedo i quadri cantare – rassegna di sinestesie alla mostra TUTTI IN MOTO

Tra le figure retoriche più suggestive, la sinestesia è sicuramente quella che arriva ai primi posti in classifica. Il salto nel vuoto da un’esperienza sensoriale ad un’altra ci lascia sorpresi, stupefatti della nostra capacità di ascoltare ciò che si vede, di annusare ciò che si ascolta, ti sentire sotto le dita ciò che prima era passato attraverso le narici. La vista però è tiranna rispetto agli altri sensi che ne subiscono la prepotenza e non vedono (per l’appunto) riconosciuti i propri meriti.

Questa riflessione in apparenza tanto sofisticata, è solo il racconto di una mia personale esperienza. Ho avuto la splendida opportunità di fare parte dello staff della mostra “TUTTI IN MOTO!”, allestita nel riqualificato Palazzo pretorio – ora PALP – di Pontedera, visitabile fino al 18 aprile. Questo mio ruolo da privilegiato mi permette di aggirarmi nelle sale e, osservando i quadri, ho scoperto che parlano… o meglio cantano. Posso proprio dire di “aver sentito le voci” davanti ad alcuni dei quadri, ma non voci qualunque: erano quelle di cantanti le cui canzoni venivano perfettamente riarrangiate a colpi di pennello.

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Il primo incontro che ho avuto è quello tra due grandi italiani: Sironi e De Gregori. Il ciclista del pittore nativo sassarese sembra cantare “il bandito e il campione” del cantautore. Non sappiamo se il ciclista ritratto sia il campione Costante Girardengo o il bandito Sante Pollastri, perché voltato di spalle pedala in salita, però mi piace pensare che “questa storia d’altri tempi di prima del motore” sia proprio la loro. Quella di due amici con la stessa passione, ma divisi nel destino. L’effetto sinestetico è palese tanto che viene da gridare “Vai Girardengo, vai grande campione!!!”

Il corpo del ciclista occupa quasi interamente la tela. Le spalle larghe e il piede che spinge sul pedale fanno sentire lo sforzo compiuto. Non abbiamo bisogno di vedere la fronte sudata del ciclista per sentirne la fatica, la sentiamo. E fu proprio la fatica la risposta che ricevetti quando fino a poco tempo fa mi chiedevo perché tantissimi appassionati di ciclismo riuscivano a resistere, ammonticchiati su una curva al gelo o sotto il sole cocente, per vedere passare, anche solo poco meno di un minuto, il proprio beniamino: per vederlo faticare! Non è puro sadismo. È che il ciclismo è uno degli sport che più si avvicina ad essere metafora della vita. Quella stanchezza che aumenta ad ogni pedalata, la difficoltà di mantenere l’equilibrio anche nelle situazioni peggiori, e la necessità di oltrepassare il traguardo anche se da ultimi è tipico della vita.

Mi viene da ridere quando c’è chi pensa che l’arte abbia dei limiti comunicativi. Sarà che mi metto a parlare coi quadri, e questo dimostra qualche segno di squilibrio, ma vi assicuro che tutto quello che ho scritto l’ha detto e cantato Sironi… ambasciator’ non porta pena.

Ps: ho cominciato ad ascoltare anche altri quadri, se chiamate la neuro mi trovate al PALP alla mostra “TUTTI IN MOTO!”. Vi aspetto per ascoltarli insieme, ma finché non riuscite a venire potete leggere questo e i prossimi articoli.

ph: dal web