Ho tagliato i capelli da solo

Ho tagliato i capelli da solo
e ad ogni ciocca che cadeva
ho espresso un desiderio.
L’acqua li ha sciolti giù nel lavandino,
altri li ho gettati nel water
il resto tra le bucce d’arance
e la mollica del pane avanzata.
Quel binario da cui
non ho mai preso un treno
l’hanno ristrutturato
e non lo riconosco più quel
ricordo a cui tanto mi ero affezionato.
Il binario di fronte invece
è ancora il solito da due anni.
La notte quando lo vado a trovare
parliamo ancora,
parliamo poco.
Ha capito che non ci vedremo più
specialmente nelle solite condizioni:
io vestito di giallo fosforescente
lui in completo blu notte da fine novembre.

È finito tra i capelli che ho perso
anche questo tempo.
Inevitabilmente ricresceranno
come alberelli timidi trapiantati
dai boschi natii nelle città di provincia
in cerca di vita per i loro viali.
Cresceranno,
speriamo più dritti e con più desideri
da esprimere insieme alle forbici.

Lo spazio del Teatro

Venerdì 11 novembre ho avuto l’opportunità di partecipare al convegno nazionale “Mani operose e teste pensanti”. La due giorni organizzata dal Cred Valdera è stata incentrata sul rapporto tra il teatro e la scuola, precisamente sul ruolo che hanno i laboratori teatrali nelle scuole. Durante l’incontro in plenaria presso il Teatro Era di Pontedera, è stato istituito il Processo al teatro nella scuola pubblica: una provocazione per raccontare il valore che i progetti teatrali hanno ma che spesso passano in sordina. Nel mio piccolo, in quanto attore amatoriale (ma proprio che bisogna amarmi per venirmi a vedere) mi è stata chiesta un’opinione. Dal canto mio ho detto questo.

Ogni spazio ha una funzione originaria, che col tempo varia o si modifica a causa dell’azione dell’uomo che usa quello stesso spazio. Ogni spazio è quindi storicamente compromesso con l’attività dell’uomo.
Le piazze, le terme, i caffè, e molti altri luoghi dimostrano come in essi la funzione principale viene col tempo alterata e subordinata alle altre esigenze di chi ne usufruisce: per tale motivo le piazze diventano il punto principale di aggregazione, le terme luoghi di affari, i caffè le dimore di rivoluzionari. Ovviamente ogni cambiamento subito è l’espressione delle esigenze di un certo periodo storico. Oggi non troviamo nei bar echi carbonari, né si va alla spa per vendere gli schiavi.
Lo spazio del teatro risulta ad oggi uno fra i principali luoghi che ha subito e allo stesso tempo stimolato questa inevitabile tendenza, tuttavia mantenendo una base solida e inalterata che si mantiene dalle origini, cioè quella della formazione di una coscienza collettività. Questo insieme alla scuola.
Non sono qui per farvi la lezione sul valore antropologico del teatro, ma in un processo istituito a dovere sul valore dei laboratori teatrali, riconosco di molto sottovalutato il problema dello spazio.
Nella mia esperienza tra scuola e teatro, fusi insieme nell’attività del laboratorio, non ho trovato l’appartenenza al luogo. Uno spazio teatrale vero e proprio non esiste; l’attività viene accolta da altri edifici che hanno altre destinazioni, e quindi altre storie, non permettendo così la crescita, la congruenza e l’unità dell’attività teatrale. In questo modo viene meno la possibilità di ricevere tutti gli stimoli inviati dall’operatore. A tale proposito, fin dal primo giorno di laboratorio, mi sono chiesto perché molti teatri restino chiusi e non diano la possibilità di respirare l’atmosfera del teatro a chi inizia da giovane un percorso da attore, anche se questo è solo ad un livello scolastico, come se questa fosse una limitazione e non un valore aggiunto. Quanto avremmo voluto poter fare le prove, un solo giorno la settimana, su un palco vero, immaginarci realmente come sarebbe stata la prima davanti al pubblico, come sarebbe stata la reale disposizione delle scenografie e delle luci. Invece raramente questa possibilità ci è stata data e per eventi collaterali al progetto.
Mi chiedo perché il teatro non assolva nuovamente alla sua funzione storica al servizio della comunità specialmente quella più giovane, e non solo dell’élite la quale spesso e volentieri partecipa solamente per il ruolo di rappresentanza che ha e non per reale interesse.
In definitiva: accuso i progetti teatrali creati senza attenzione ai fondamentali, come l’individuazione di uno spazio adeguato per lo sviluppo del progetto, e che lasciano in balia degli operatori tutta la gestione. Accuso chi detiene le redini della macchina burocratica, direttori artistici e simili, che hanno le spalle larghe solo per prendere in braccio il loro palinsesto pieno zeppo dell’illustre pantomima contemporanea di un teatro lontano dalla gente comune, lontano da quella parte di giovani che ne sono attratti ma non hanno strumenti sufficienti per partecipare. Accuso il teatro che non si apre come spazio fisico, che non fa entrare le scuole se non prima aver aperto il portafogli.
Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi se si proponessero di essere lo spazio per cui sono stati creati.

Olivia

Olivia ha 31 anni. Olivia è una ragazza bionda, un po’ più alta della media, con due occhi neri. Olivia è bella.
Olivia non è il suo vero nome. Nessuno sa quale sia veramente. E chi lo sa lo ha dimenticato. Nemmeno sua madre la chiama più con quel nome. Olivia è Olivia.
Olivia subito dopo la scuola ha fatto una scelta. Non voleva studiare, non voleva girare il mondo, non voleva trovare l’amore. Olivia cercava un posticino dove stare per essere Olivia, e lo ha trovato proprio come il suo nome.
Olivia aveva un lavoro. Faceva una cosa banale, e come tutte le cose banali era una cosa perfetta e giusta. Olivia metteva l’olio nei bandoni, nelle saracinesche e in tutti quei meccanismi di ferro arrugginito. Per questo motivo Olivia dal primo giorno di lavoro divenne Olivia, per tutti. Perché metteva l’olio.
Olivia la conoscevano tutti in città, soprattutto in centro. Metteva l’olio a tutti i negozi. Com’era simpatica Olivia. Rideva sempre. Girava a bordo di quel vecchio motorino a cui aveva attaccato un cassone con tutti i suoi attrezzi.
Era precisa Olivia. Si era informata e cercava sempre di fare del suo meglio. Quando le facevano i complimenti arrossiva sempre e poi diceva: “Ma io non sono mica Gesù, non trasformo l’acqua in vino, semmai in olio, io sono Olivia” e rideva. Come rideva Olivia.
Non era identica a nessuno Olivia.
Adesso il motorino di Olivia non gira più per il centro con il suo permesso speciale del comune. Adesso i negozi hanno nuove serrande auto-lubrificate. Hanno una scatoletta che rilascia l’olio automaticamente ogni tot di tempo. Basta riempire quella e per farlo basta chiunque.
Adesso non serve più Olivia. Olivia infatti non c’è più. E il suo mondo è scomparso. Non c’è più il suo quaderno con le scadenza da rispettare, non c’è più il motorino da riparare, non c’è più il permesso speciale del comune per passare in centro, non c’è neanche il suo sorriso.
Adesso Olivia è tornata ad essere quella di prima, quella che si chiamava in quel modo che nessuno ricorda. Nessuno più la chiama Olivia, nessuno più la chiama.
Adesso ha saputo che lei è identica alle altre persone. Identica a quelli che ancora si stanno cercando, che cercano il proprio mondo in cui riconoscersi, che cercano la propria identità. Lei però l’aveva trovata tra l’olio su cui scivolare e le strade da percorrere ogni giorno. Lei era Olivia.